Uno dei punti di contatto e di confronto tra il pensiero occidentale e quello orientale è offerto dalla riflessione sugli elementi fondanti della natura.
Dalle nostre parti, fin dall’antichità, aria, acqua, la terra e il fuoco sono stati ritenuti gli elementi le cui combinazioni compongono quanto esiste in natura. Nel tempo, lo studio sistematizzato della natura (la Fisica) e dei suoi componenti (Chimica), ha identificato gli stadi solido (terra), liquido (acqua), gassoso (aria) come condizioni degli elementi in natura. Il quarto stato è identificato come il plasma (fuoco) o energia.
La riflessione filosofica e gnoseologica sulla natura ha portato, fin dall’antichità, a concepire una “quintessenza”, un quinto collante tra questi elementi: l’etere.
In Cina, contemporaneamente a quando da noi Platone parlava di questi argomenti, prendeva forma la dottrina dei cinque elementi: acqua, legno, fuoco, metallo e terra.
Notiamo immediatamente che in Cina compaiono da subito cinque elementi, scompare l’aria e si affacciano legno e metallo.
Lo schema interpretativo della realtà, nella cultura orientale, origina da riflessioni sulla natura energetica e ciclica del mondo. Da una prima fase a riposo energetico (acqua), si sviluppa la fase del legno, che è una condizione di risveglio che sfocia in uno stato energetico più alto e prolungato (il fuoco) fino a confluire in uno stato ad energia condensata: il metallo. L’elemento terra è, in questa prospettiva, simile concettualmente alla quintessenza nel pensiero occidentale antico: un elemento trasversale.
Siamo consapevoli che non si possano ridurre in poche righe millenni di cultura che lentamente si è sviluppata e diffusa nella concezione della realtà e dell’esistenza dell’essere umano in tutto il pianeta. Di certo possiamo dire che, a tutt’oggi, la medicina tradizionale orientale (quella cinese soprattutto), al pari di altre pratiche, come per esempio lo Shiatsu, sono fondate su questo modello interpretativo della natura, pertanto meritano il rispetto dovuto ad un fenomeno umano vasto –nel tempo e nello spazio- e molto articolato.
Siamo anche consapevoli del fatto che, anche nel campo dello studio delle Arti Marziali, il simbolismo geometrico, insieme a quello legato agli elementi, è stato ed è investigato, con intensità e risultati differenti.
Il rischio, va detto subito, è che la pratica marziale non ne risulti arricchita; piuttosto intorbidita. A danno dell’equilibrio tanto del maestro quanto dell’allievo.
Spesso aumenta il numero delle parole, comprese quelle oscure, mentre diminuisce il tempo di pratica. Ancora più spesso, ci si inoltra in terreni di studio per affrontare i quali un principio legittimo e necessario di curiosità dovrebbe essere controbilanciato da un doveroso senso di responsabilità e competenza. Chi nasce a certe latitudini, che piaccia o meno, nasce equipaggiato con un set mentale che deve essere riconosciuto e conosciuto bene prima di potersi mettere in confronto ed in esplorazione con altri mondi. Lo studio del pensiero filosofico (e -perché no?- storico e religioso) occidentale è prerequisito per non perdersi negli ambiti orientali. E viceversa.
Nella pratica dell’Aikido, triangolo, quadrato e cerchio da un lato e cinque elementi dall’altro, offrono articolate e non immediate prospettive sulla pratica. Anche e soprattutto perché il cervello occidentale è configurato sulla modalità “quattro elementi” e si finirà a fare come quei bambini che provano a far entrare il giocattolo a forma di parallelepipedo nel buco a forma di triangolo…
Quindi per esempio, si possono suddividere i livelli di pratica e, con essi, racchiudere le famiglie di tecniche all’interno degli elementi “occidentali”:
La terra, con la sua stabilità rappresenta la fase solida e fondante della pratica (kotai) in cui svolgere una pratica prevalentemente stabile (kihon). In questa prospettiva sono comprese tutte le tecniche di immobilizzazione (katame waza);
L’acqua rappresenta per contro il passaggio ad un livello di pratica gradualmente sempre più fluido e armonico (dal kihon al ki no nagare). Questo livello, più cedevole ed adattabile (jutai) è il livello in cui il katame waza inizia ad aprirsi alle varianti, comprendendole nella loro dimensione applicativa (henka waza);
L’aria stabilisce il completamento di un percorso di padronanza delle tecniche in ki no nagare. Il livello di armonizzazione raggiunto con il ki del partner stabilisce così un grado di pratica noto come ryutai e consente l’esecuzione non forzata di kaeshi waza e la concatenazione (kanren)
Il fuoco è visto quindi come simbolo dell’ultimo livello di pratica, quello in cui tutto avviene a livello di ki. Il kitai è il livello della spontaneità, della perfetta intesa, del vero e proprio annodamento delle reciproche intenzioni (musubi) a prescindere dal contatto fisico.
Questo modello di interpretazione della pratica ha certamente fascino. Offre anche più di un punto interrogativo. Le tecniche di proiezione sono da considerarsi un fondamento –e quindi fanno parte del kotai– o sono da considerarsi espressione di una tecnica maggiormente fluida e quindi sono appannaggio di livelli più ampi? Ancora: la pratica del kitai è preclusa a chi non sia arrivato ad un livello di maestria elevato? O siccome attiene a dimensioni sottili è qualcosa di sperimentabile anche da chi è sul tatami da un mese? A che condizioni e con che rischi?
Un altro modello di interpretazione è dato dall’immagine seguente, che riprende la disposizione degli elementi cinesi applicandola ad alcune tecniche specifiche (l’immagine è una nostra rielaborazione parziale di uno schema attribuito a Masatomi Ikeda).
Che dire? A prima vista all’opposto dell’acqua secondo i Cinesi deve trovarsi il fuoco. Qui troviamo l’aria (che è elemento “occidentale”). Legno e metallo scompaiono per lasciare posto a terra e fuoco…
E’ una proposta che ha senso; è evocativa, ha il suo fascino.
Allora, proviamo a fare uno sforzo di fantasia e proviamo a spostare la telecamera…
La terra con l’acqua può diventare una pozza di fango.
La terra con l’aria può trasformarsi in un turbinio di polvere.
La terra col fuoco può diventare un magma più o meno denso.
L’acqua col fuoco diventa vapore.
L’acqua con l’aria diventa condensa e pioggia.
L’aria col fuoco diventa uno sciame di faville e un incendio che divampa.
Le contaminazioni, le vie di mezzo non ben definite, aprono a scenari curiosi.
Avrà la caratteristica del fango quel tipo di pratica che un po’ è stabile (terra) ma non troppo e che vuole investire in fluidità (acqua) ma senza un uso consapevole dell’energia. E infatti il ki no nagare di chi non è sicuro nel kihon ha la stessa qualità di chi è cresciuto nel ki no nagare senza studiare il ki hon. Tuttavia, il fango può servire per consentire ad alcuni semi di germinare.
Avrà la caratteristica della polvere quella pratica che mischia un po’ di basi (terra) con molte altezze (aria). La polvere ammanta tutto di sé ma subito si disperde. La polvere rende la vista e la respirazione difficoltosi. E’ nel turbinio del vento, però, che viaggiano pollini, semi e quanto sposta la vita nel mondo.
Avrà la caratteristica del magma l’unione tra un quel po’ di radicamento (terra) su cui si innesta una dose di autostima che fa pensare di essere autorizzati a pensare di padroneggiare il ki e lo spirito (fuoco). Il magma è indistinto, non ha forme se non quando il fuoco si esaurisce e lascia spazio alla nuda roccia, che nel mentre ha distrutto ogni forma di vita. Tuttavia, nella fertile cenere che rimane, può svilupparsi altra vita.
Avrà la caratteristica del vapore quel tipo di pratica che cerca esasperatamente di equilibrare gli opposti (acqua e fuoco), col rischio di spegnere uno o vanificare l’altro definitivamente. Ma il vapore ha anche il privilegio di purificare quanto attraversa e di permearlo, lasciando traccia. Se diventa troppo, è una nebbia che tutto avvolge e che tutto ferma.
Similmente, avrà la caratteristica della pioggia l’instabilità derivata da poca profondità nelle vette dello spirito (aria) e dalla calma (acqua) non perfettamente padroneggiata. La pioggia può essere distruttiva ma senza pioggia il mondo sarebbe morto.
Infine, quando il vento soffia sregolatamente a favore di un fuoco non controllato, l’incendio divampa e innesca con le sue faville altri roghi. Trasmettere la passione è cosa buona, a condizione che l’intenzione sia pulita, diversamente si chiama manipolazione (e, dal punto di vista della tecnica, violenza).
Se prendiamo per buono come riferimento lo schema di Ikeda Sensei e volessimo quindi trovare un equivalente tecnico a questi nuovi elementi, che cosa succederebbe?
L’incendio, per esempio, che cosa sarebbe, come risultato di un’ibridazione tra irimi nage e shi ho nage? Probabilmente un nage waza molto simile a un laccio californiano, uno di quei simpatici TIR a forma di braccio teso che ogni tanto puntano alla gola di uke… L’escalation dell’aggressività certo divampa quando si riceve un regalo di questo tipo.
E il magma? A metà strada tra un kote gaeshi e uno shi ho nage di solito nasce una lussazione del polso, una definitiva epicondilite al gomito e, per i più fortunati, una lesione della cuffia dei rotatori. Distruttiva? Traumatologicamente sì. Fertile? Se si capisce la propria immaturità, sì. Marziale? No.
Insomma, quando l’esecuzione delle tecniche, nella pratica, origina delle condizioni ibride, stiamo alchemicamente lavorando su sottoprodotti degli elementi fondanti della pratica.
I quali possono essere elementi utili per la nostra e altrui crescita a patto che siano transitori e non definitivi.
L’alternativa è lo pseudo guru che vive e fa vivere nella nebbia; una pratica impantanata in una costante indeterminazione; un’instabilità di fondo, anche emotiva, che fa precipitare all’improvviso tutte le finte certezze; preferire una spolverata di apparenza rispetto alla sostanza; demolire i compagni di pratica per la nostra incapacità a gestire le nostre risorse, mandando in cenere tutto ciò che tocchiamo.
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